Lo scandalo non esiste più
«Ma già alla metà degli anni ’50, quando Max Ernst vinse il gran premio alla Biennale di Venezia, André Breton confidava malinconicamente a Buñuel: “Cosa vuole, amico mio, ci siamo divisi da Dalì, diventato un miserabile mercante; ed ecco che adesso Max fa la stessa cosa.” E scuotendo la testa aggiungeva: “È triste a dirsi caro Luis, ma lo scandalo non esiste più.”
Breton l’aveva capito mezzo secolo fa.
Oggi c’è qui da noi qualcuno che invece ancora non l’ha capito e ritiene sia possibile continuare a fare i rivoluzionari usando l’arma dello scandalo, vero o immaginario che sia. Ma si tratta di un’arma spuntata, uno scandalo da “piano terra”, anzi: uno scandalo da portineria, da scantinato.
Qualche esempio? La “coraggiosa e audace” performance di Roberto Benigni che, sul palcoscenico di una popolare trasmissione televisiva, osannava alla vagina proclamando allegramente a gran voce gli infiniti nomi che la tradizione popolare e dialettale le assegna; o in un noto programma notturno della TV destinato alla celebrazione del cinema d’autore e per solito altamente meritorio, i filmini di Ciprì e Maresco, vale a dire: la scoreggia come manifesto culturale.
Questa pseudo “nuova avanguardia” degli anni ’90 non è che un penoso rimestare, con almeno mezzo secolo di ritardo, tra i rifiuti di quella avanguardia che aveva almeno per ragioni cronologiche il diritto di chiamarsi tale. Quella avanguardia che, osservata oggi, con l’occhio del ventunesimo secolo e la premonizione di ciò che forse ci attende, comincia ad apparire per quello che è realmente: una retroguardia; la pattuglia di coda di una “cultura” che si allontana nel tempo storico fino a svanire: testimone e notaio di un decesso, piuttosto che di una rinascita.
Sarebbe ora di capire che scrivere “Il padre de li santi” e “La madre de li santi” più di 170 anni fa, come fece Giuseppe Gioacchino Belli in una città retta da un tetro governo clericale che comminava salatissime condanne per molto meno, poteva essere un coraggioso gesto di libertà. Fare la stessa cosa oggi, senza neppure il pregio dell’originalità, non è che un colpo di furbizia utile per fare soldi e carriera – proprio come si diceva – in una società di piccoli ottusi provinciali che credono, applaudendo, di apparire “moderni”.
E chi non sa cogliere la differenza che passa tra L’âge d’or e Cinico TV farebbe bene a mettere gli occhiali.»
Ottavio Jemma, cit, pag. 35
Breton l’aveva capito mezzo secolo fa.
Oggi c’è qui da noi qualcuno che invece ancora non l’ha capito e ritiene sia possibile continuare a fare i rivoluzionari usando l’arma dello scandalo, vero o immaginario che sia. Ma si tratta di un’arma spuntata, uno scandalo da “piano terra”, anzi: uno scandalo da portineria, da scantinato.
Qualche esempio? La “coraggiosa e audace” performance di Roberto Benigni che, sul palcoscenico di una popolare trasmissione televisiva, osannava alla vagina proclamando allegramente a gran voce gli infiniti nomi che la tradizione popolare e dialettale le assegna; o in un noto programma notturno della TV destinato alla celebrazione del cinema d’autore e per solito altamente meritorio, i filmini di Ciprì e Maresco, vale a dire: la scoreggia come manifesto culturale.
Questa pseudo “nuova avanguardia” degli anni ’90 non è che un penoso rimestare, con almeno mezzo secolo di ritardo, tra i rifiuti di quella avanguardia che aveva almeno per ragioni cronologiche il diritto di chiamarsi tale. Quella avanguardia che, osservata oggi, con l’occhio del ventunesimo secolo e la premonizione di ciò che forse ci attende, comincia ad apparire per quello che è realmente: una retroguardia; la pattuglia di coda di una “cultura” che si allontana nel tempo storico fino a svanire: testimone e notaio di un decesso, piuttosto che di una rinascita.
Sarebbe ora di capire che scrivere “Il padre de li santi” e “La madre de li santi” più di 170 anni fa, come fece Giuseppe Gioacchino Belli in una città retta da un tetro governo clericale che comminava salatissime condanne per molto meno, poteva essere un coraggioso gesto di libertà. Fare la stessa cosa oggi, senza neppure il pregio dell’originalità, non è che un colpo di furbizia utile per fare soldi e carriera – proprio come si diceva – in una società di piccoli ottusi provinciali che credono, applaudendo, di apparire “moderni”.
E chi non sa cogliere la differenza che passa tra L’âge d’or e Cinico TV farebbe bene a mettere gli occhiali.»
Ottavio Jemma, cit, pag. 35
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